Cesare, una thug life: il dado

Il passaggio del Rubicone e la celebre, solenne frase “il dado è tratto”, attribuita a Cesare a fatto compiuto, è un episodio che, nella cultura popolare, è fortemente misinterpretato.

La figura di Cesare nella nostra memoria collettiva si staglia e svetta algida e statuaria, con un fare arcigno e sprezzante.

L’uomo era più complesso, e sottoposto a passioni molto più umane.

Cominciamo dal contesto.

Cesare, dopo la conquista delle Gallie, svoltasi di sua privata iniziativa, è diventato ormai estremamente ricco e potente, e le sue vittorie hanno adombrato le passate glorie dell’uomo più potente di Roma, Pompeo, allora noto come Pompeo Magno, il conquistatore della Siria e dell’Asia.

Cesare, nei commentari, dà ogni colpa a Pompeo, è lui ad avere iniziato le ostilità, con manovre politiche, togliendo sistematicamente di mezzo i sostenitori del rivale.

A sua volta Pompeo, a Roma, descriveva Cesare come un pericolo pubblico. Era chiaro che mirasse al potere assoluto, tutti sapevano delle sue ambizioni sconfinate.

In realtà entrambi, anche se a lungo e per comodità alleati politici, sapevano che, dopo la morte del ricchissimo Crasso, c’era spazio solo per una persona al vertice dell’Urbe.

La guerra era inevitabile.

Il territorio della città di Roma era sacro e inviolabile. Le truppe non potevano varcarne i confini, gli eserciti andavano sciolti.

Questi confini sacri si erano sempre più ingranditi, e dalla singola città di Roma si erano estesi fino a comprendere tutta la provincia d’Italia, che finiva proprio sul Rubicone, a nord di Arminium (Rimini).

Più a nord cominciavano le Gallie. E le Gallie erano di Cesare.

Quindi, varcare il Rubicone era considerato non solo sovversione dell’ordine pubblico, ma sacrilegio.

Cesare lo sapeva bene, dopo tutto era il Pontefice Massimo, una somma autorità religiosa.

Attaccare, varcare il Rubicone e avere tutta Roma contro, diventare il nemico pubblico, avendo a disposizione solo una legione (la decima, i più fedeli, i più coraggiosi tra i soldati di Cesare) contro tutte quelle di Pompeo e di Roma, confidando nelle amicizie, nella sua fama, nei sui sostenitori, o in un passo falso del nemico?

Oppure aspettare ancora, le legioni delle Gallie erano già in marcia, ma in quel caso Pompeo avrebbe avuto tutto il tempo per prepararsi…

Nel dubbio, decise di attaccare. Come sempre. Dopo tutto, gli era andata quasi sempre bene… Fino ad ora.

La decima legione era acquartierata sul confine.

Cesare è a Ravenna, poco lontano.

La sera va a teatro, per non destare sospetti.

Decide di muoversi col buio.

Doveva raggiungere le sue truppe, di nascosto, nei loro accampamenti, di notte e travestito da carrettiere, su di un carro trainato da muli.

Erano pochi chilometri da percorrere, eppure passavano le ore, già albeggiava, ma nel campo non vi era nessuna traccia di Cesare.

Si era perso tra i boschi e le paludi della zona. Non riusciva più a trovare la via per giungere alle sue truppe.

Come è distante l’immagine di Cesare disorientato, confuso, consapevole del rischio estremo a cui andava ad esporsi, e probabilmente spaventato, da quella distaccata, solenne che esclama, sprezzante del pericolo, il dado è tratto, “alea iacta est”!

Sono parole che Cesare non ha mai pronunciato.

Da buon aristocratico romano, usava il greco nelle occasioni solenni. E in greco, attraversando il Rubicone, esclamò delle parole, tradotte da Plutarco con alea iacta esto, “si lanci il dado!”.

Era la formula di rito del giocatore di azzardo, nella bisca, subito dopo aver lanciato una scommessa.

Ok formica

Era un inverno rigido e freddo per la cicala, abituata com’era alle lunghe giornate soleggiate del clima subtropicale. Si fece coraggio e bussò alla porta della formica.

“Buonasera signora formica” disse.

Lo accolse una grossa formica operaia, che si muoveva sonnacchiosa nel tepore della tana.

“Buonasera cicala, prego, si accomodi”

La tana era una di quelle costruite ad opera d’arte, secondo criteri antichi come il tempo, dalle operose formiche.

“Operose si fa per dire, lei lo sa che il 20% delle formiche fa più di metà di tutto il lavoro dell’ intero formicaio?”

Beh sì, ma questa è la distribuzione di Pareto, é applicabile un po’ ovunque, sa? Sono sicura che il 20% delle spighe contiene più della metà del grano che mangiamo, e così, similmente, gran parte di tutti gli effetti può essere ridotta ad un numero ristretto di cause, rispose la cicala.

“Anche se ciò cozza con la visuale comune, che ci vede tutte dedite al lavoro, ci sono molte inefficienze nella nostra società, ci sono formiche che dormicchiano invece di lavorare, formiche che se la prendono con comodo, insomma, ben poco cibo arriva alla monarca”

Però, che bella tana. È un 16000 locale?

“16 756 locale, però una buona parte è soppalcata, sa, la prole…”

Mi sorprende. Come ha fatto a permettersi una tale magione col salario da operaia?

“Dopo la guerra alle termiti tutto il formicaio andava ricostruito, quindi c’erano ottime opportunità lavorative. Poi, la tana è stata edificata durante il boom, qua era tutta campagna, sa? Ma lei non è di qui immagino”

Siamo lavoratori stagionali, siamo assunti fino all’autunno, poi ci spostiamo in un posto più caldo, per sfuggire al gelo.

“È la flexsecurity! Oggi bisogna essere dinamici, intraprendenti, disposti al compromesso!”

Eh.. Io mi chiedevo se avesse del grano da darmi, sa, è inverno…

“Eh no! Io qua il grano me lo sono sudato. Che tempi, signora, nessuno ghe s’ha voglia di lavorare”

La cicala va via, una voce dalla tana chiede “chi era?”

“Ma niente” rispose la formica. “Mi sa che l’è un terun”.

Sex and the Polis: Lisistrata, ovvero fate l’amore, non fate la guerra

Comincia qui una nuova fantastica rubrica dedicata, come mostra chiaram\nente il nome, all’esegesi biblica! Ah no, è antichità e sesso. Peccato, ci tenevo a parlare di Torah…

La nostra visione del passato è affetta da molti pregiudizi. Abituati a considerare il passato un tempo di morigeratezza (almeno quella sessuale), religione e oscurantismo, dimentichiamo che anche nell’ “oscuro” medioevo, tra una guerra, una messa, un’invasione barbarica e una crociata, la gente scopava allegramente, e liberamente.

Ma partiamo con ordine, dalla Grecia, e più precisamente dalla Lisistrata di Aristofane.

Aubrey Beardsley, illustrazione per la Lysistrata di Aristofane

La Lisistrata è una commedia scritta e rappresentata in piena guerra del Peloponneso, in cui le Ateniesi, capeggiate appunto da Lisistrata (la “dissolutrice di eserciti”) decidono di metter fine alle ostilità tramite uno sciopero del sesso, obbligando quindi i mariti ad una scelta apparentemente facile, tra amore e guerra (gli eterni eros e thanatos!). La commedia si conclude con i festeggiamenti per la ritrovata pace e con gli attori in erezione, come in un qualsiasi film dei fratelli Vanzina, insomma.

Norman Lindsay, illustrazione per la Lysistrata di Aristofane

La trama della commedia non era del tutto frutto della fantasia di Aristofane: era ispirata da una rivolta tutta femminile avvenuta molto tempo prima ed in un’altra città, in cui le donne, trascurate da un decennio di guerra ininterrotta, si ribellarono alla guerra e pretesero il ritorno a casa dei soldati.

Quale covo di pazzi sanguinari avrebbe preferito un decennio di costante guerra al conforto delle loro donne?

Ebbene sì, avete indovinato.

Sparta (“la dispersa”), o meglio, Lacedemone, era atipica tra le poleis greche per numerosi fattori, uno dei quali era il ruolo di relativa parità tra uomo e donna.

Essendo fondamentalmente una piccola aristocrazia basata sull’ oppressione di un’enorme massa di schiavi, gli Iloti, era una società in guerra civile permanente, una guerra che poteva vincere solo tramite il sacrificio di ogni cittadino al bene collettivo.

A gravosi doveri condivisi da entrambi i sessi corrispondevano diritti condivisi ed una generale libertà sessuale che attirava le critiche e lo scandalo degli altri greci. Gli Spartani, dominatori di tutta la Grecia, erano a loro volta dominati dalle loro donne, così almeno insinuavano le malelingue.

Mentre gli Spartani si divertivano ormai da anni a fare la guerra ai Messeni, popolazione confinante da loro schiavizzata, le Spartane intimarono la fine delle ostilità. Erano sole, e non solo si stavano annoiando, la stessa città, senza nuove nascite, si sarebbe estinta.

Afrodite callipigia (“dal bel culo”), copia romana di un originale greco

Gli Spartani, letta la missiva, decisero di inviare a casa i ragazzi più giovani, poco utili alla guerra, mentre loro continuavano ad occuparsi di cose serie, ligi al loro motto non ufficiale “fate la guerra non fate l’amore”.

Da questi ragazzini, che compirono tutto sommato con altrettanta devozione il loro dovere (sempre per la maggiore gloria di Sparta) e dalle Spartane nacquero numerosi figli, i partheniai (i “figli di vergini”). Essendo figli illegittimi e dopo un tentato colpo di stato, diventati ormai una seccatura per la città, furono mandati lontano, a fondare l’unica colonia spartana in Italia, Taranto.

I figli del vento

L’origine del popolo gitano

Questo è un mito sull’origine degli zingari, o gitani. Si tramanda oralmente nelle loro comunità da generazioni. Non ha alcuna pretesa di accuratezza storica, ma, come ogni mito, ha un significato che trascende la sua veridicità.

Otto Mueller, Zingare con girasole

Molto tempo fa, il re di Persia organizzò una festa sontuosa per il matrimonio della sua figlia prediletta.

Le celebrazioni durarono per settimane; chiamò i più grandi cuochi del regno, fece portare animali esotici, saltimbanchi, ballerini, musicisti, poeti, fenomeni da baraccone. C’erano diecimila artisti itineranti provenienti dall’India.

Fu un successo. La gioia della principessa e del principe, suo degno marito, e lo sfarzo delle celebrazioni placarono il cuore dello Scià, assai rattristato dal separarsi da sua figlia.

Finì la festa, e venne il giorno della paga. Il re fu molto generoso. Agli artisti, venuti da terre lontane, diede terre fertili da coltivare e sementi in abbondanza.

Un anno dopo, tornarono dal re, chiedendo altro cibo. Della terra non sapevano che farsene, erano artisti, non contadini, e le semenze erano finite nei loro stomaci, non nel ventre della terra. Il re, su tutte le furie per una tale ingratitudine, li cacciò via, e da lì si dispersero ai quattro venti. Nacque così il popolo gitano, i figli del vento, che da allora vaga di terra in terra, ma che non ha mai imparato a coltivare.

Cesare, una thug life: pirati BTFO

Era solo un ragazzo ma già Silla lo voleva morto. Cesare fuggì da Roma, cambiando casa ogni notte e di giorno viaggiando. Si stava dirigendo verso Rodi quando, al largo dell’isola di Farmacussa, nel mare Egeo, fu catturato dai pirati.

Erano pirati della Cilicia, famigerati per la loro ferocia e crudeltà. Sapendo di aver catturato un nobile romano, fissarono un riscatto di 20 talenti. Questa era una cifra considerevole, che poteva bastare ad una persona normale per un’intera vita negli agi, o a Cesare per una settimana di favori, eventi pubblici e spese sconsiderate. Al sentire la cifra, rise. Lui valeva di più, molto di più!

Almeno 50 talenti.

I pirati furono felici di accontentarlo. Furono anche sorpresi del carattere del ragazzo, che non sembrava affatto spaventato, anzi, beveva, rideva e scherzava con loro, come fossero amici di lunga data. Era davvero simpatico!

Da ubriaco ripeteva spesso, ridendo, che li avrebbe impiccati tutti, ma si sa come sono i ragazzi… Scherzano, fanno la voce grossa, fanno gli sbruffoni.

Era un po’ meno simpatico quando li sgridava perché schiamazzavano la notte, invece di farlo dormire.

Per ingannare il tempo scriveva discorsi e poesie che poi leggeva loro. Se poi non gli piacevano li insultava, chiamandoli barbari ed ignoranti.

Più o meno è andata così

Ricevuto il riscatto, lo rilasciarono. Cesare allora si diresse verso il porto più vicino, e subito fece armare una nave per dare la caccia ai pirati. Li beccò nel solito posto, che non avevano ancora lasciato. Quindi li portò prigionieri nella vicina provincia romana, assieme al loro ricco bottino. Consegna il bottino al governatore, in cambio lui avrebbe chiuso un occhio sulla sorte dei pirati. Li fa prelevare dalle carceri, prima che fossero sottoposti a un processo, e li fa impiccare davanti ai suoi occhi.

Cesare era un uomo di parola.

Cesare, una thug life: in the ghetto. Dandismo e tracotanza

“Quando vedo i suoi capelli così accuratamente pettinati, o lo colgo nell’atto di grattarsi la testa con un dito, non mi pare possibile che quest’uomo abbia concepito un progetto così malvagio, quello, cioè, di rovesciare la costituzione romana” Cicerone

L’Urbe

Erano tempi oscuri per la Repubblica. Se ormai si era affermato il predominio incontrastato di Roma nel Mediterraneo, l’Urbe rimaneva in subbuglio. Alle immense fortune delle classi superiori faceva da contrasto la miseria del proletariato. Mezzo milione di bocche affamate, spesso ammassate in enormi condomini fatiscenti, erano pronte alla ribellione, sobillate da demagoghi che, vuoi per simpatia vuoi per tornaconto personale, ne rappresentavano la voce fino al Senato, il centro del potere.

Le riforme dei Gracchi erano finite in un bagno di sangue, così come quelle di Mario. Silla, da dittatore, aveva imposto un cruento ritorno all’ordine, eliminando senza remore ogni opposizione.

Uccidere un adolescente appena affacciatosi alla politica, tuttavia, sembrava crudele anche per i suoi standard. Eppure, lo voleva morto.

In questo ragazzino, Gaio Giulio Cesare, Silla vedeva l’immagine di Mario centuplicata.

Il divo Giulio

Cesare nacque nel quartiere popolare e malfamato della Suburra nel 101 a.c. da una famiglia aristocratica, ma ormai impoverita e caduta in disgrazia.

Da giovane era alto, pallido, gracile ma di bella presenza, sempre molto curato ed elegantissimo. In seguito, non accettò mai la sua calvizie, e faceva di tutto per nasconderla. Proprio per questo adorava le corone di alloro. Soffriva del morbo sacro, che noi profani chiamiamo epilessia.

Mostrò fin da subito grandi capacità oratorie ed un carisma inferiore solo al suo spropositato amore di sé. Sapeva sedurre, affabulare, conquistare cuori e menti sia con parole che con azioni.

Il suo appetito sessuale era proverbiale, ed onnivoro. Aveva fama di essere “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti”. Nonostante i vari scandali non dava peso né alle voci sul suo conto né alle varie allusioni dei suoi avversari.

A diciotto anni fuggì Roma per sottrarsi alle ire di Silla. Legami di parentela con Mario e l’appartenenza ai populares erano già costati la vita a due suoi zii. Riuscì a salvarsi, forse per l’intercessione della stessa figlia di Silla o delle vestali, e perché corruppe i sicari venuti a cercarlo. Andò in Asia, dove prestò servizio militare, in cui si distinse per valore.

Morto Silla, poté darsi alla politica senza più timori. Il popolo lo amava. Persino ai suoi nemici riusciva difficile odiarlo.

Spesso imbandiva feste e banchetti pubblici ed elargiva favori al popolo, e ancor prima di aver ricevuto cariche, aveva già speso una fortuna che non aveva. Aveva tuttavia l’amicizia di Crasso, l’uomo più ricco di Roma. Come vuole il detto, chi trova un amico trova un tesoro.

Molti lo consideravano stupido e uno scialacquatore. Spendeva cifre folli, apparentemente senza secondi fini. Pochi intuivano quanto questi fini fossero alti. Pochissimi sapevano dei suoi enormi debiti. Il denaro sembrava essergli indifferente. Cosa cercava, il potere, o qualcos’altro?

Al funerale di sua zia Giulia, moglie di Mario, Cesare, ormai trentenne e questore della Repubblica, mostrò il suo vero volto.

Fece portare le effigi di Mario in processione, tra la gioia del popolo, sfidando la legge ed il senato. Questo era ai tempi un grave crimine, ma un crimine che non sarebbe stato punito.

Ma qualcos’altro fece rabbrividire i senatori lì presenti: nell’ orazione funebre raccontò delle origini di sua zia defunta e della sua famiglia, la gens Iulia. Era un modo elegante per parlare di sé.

La gens Iulia, proclamò, era una famiglia di antica ed illustre nobiltà. Tracciava la sua origine da Iulo, o Ascanio, figlio di Enea. Tramite l’eroe troiano erano quindi discendenti della dea Venere.

Cesare aveva proclamato la sua origine divina.

Più che il potere, cercava, come un eroe antico, la gloria imperitura.

Cesare, una thug life: una lettera sospetta

Comincia qui una breve serie dedicata a Cesare.

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Non tratterò delle sue celebri imprese, per quello ci sono i libri di storia, ma del personaggio, degno della leggenda: il più scaltro dei politici, il più audace dei generali, il più megalomane degli uomini, partito dal nulla ma capace di cavarsela in ogni situazione e trionfare nonostante le avversità, senza mai perdere il suo swag. Insomma, non aveva scelto la thug life, era la thug life ad aver scelto Cesare.

Plutarco nella vita di Bruto narra un episodio di gossip che fa molta luce sul suo personaggio.

L’unica cosa storicamente accurata in questa immagine è il motto di Cesare, Nobiscum Venus (Venere è con noi). Pare infatti fosse sua lontana parente

In seguito alla congiura di Catilina, Catone (che sarà fiero avversario di Cesare fino alla morte) si scontrò al senato con Cesare, esponente di spicco del partito dei populares e da tempo sospetto di essere un sovversivo. Il primo chiedeva l’esecuzione immediata di ogni congiurato che non era riuscito a fuggire, il secondo chiedeva un giusto processo, come si conveniva a dei senatori, e una pena meno severa.

In un’epoca segnata da congiure, assassini, proscrizioni e processi sommari, si stava esponendo ad un grosso rischio invocando clemenza. Era dalla parte di Catilina, o del senato? Come era possibile che non sapesse nulla della congiura, nata in seno al suo stesso partito? Questa era un’accusa di tradimento, punibile con la morte, e non del tutto ingiustificata.

All’improvviso entra un messo e consegna una lettera a Cesare, che provvede a leggerla con calma e con molto interesse, ignorando i presenti. Ecco che Catone, infuriato, lo accusa di ricevere lettere dai congiurati, perdipiù sotto gli occhi di tutto il senato! Gli intima di fargli leggere la missiva. All’inizio restio, Cesare cede alle accuse e gli consegna la lettera, avvertendolo: “il suo contenuto non ti piacerà”.

Non era Catilina.

Era una lettera lasciva di Servilia, amante di Cesare, moglie di un illustre senatore lì presente, e sorella di Catone, che glie la rilancia disgustato, urlandogli “tieni, ubriacone!”.

Quest’accusa sembra francamente ingiustificata.

Cesare sarà stato pure un megalomane, scialacquatore, erotomane, ambiguo, demagogo, tiranno, narcisista, manipolatore, sobillatore, partecipe alla congiura di Catilina, ma di certo non era un ubriacone.

Quanto a Servilia, che amò fin dalla più tenera età, e poi ancora per lungo tempo (nonostante fossero entrambi sposati), fu la madre di Bruto.

Come costruire una piramide in 7 semplici passi

Ci sono degli indicatori universali ed oggettivi di stupidità. Per esempio, ogni volta che qualcosa è definito “olistico”, la medicina omeopatica nel suo complesso, ed ogni volta che in televisione si parla della costruzione delle piramidi.

Da notare quanto fossero tamarre dipinte di bianco

È difficile immaginare come sia stato possibile costruire qualcosa di così grande e senza alcuna utilità pratica, disponendo di semplici strumenti di rame temprato, e in un’epoca così remota. Nello stesso tempo, in Europa era ancora diffusa la caccia al mammuth.

Ma andiamo con ordine, in 10 punti con cui costruire con semplicità tante piramidi:

1) Il punto più importante è triviale: tassazione universale al 50%. Fino all’avvento delle politiche socialdemocratiche nel XX secolo, nessuno stato aveva mai imposto una tassazione così pesante, se non in casi di emergenza o come strumento punitivo.

2) Un’ agricoltura fiorente. L’ Egitto era molto più fertile e meno popolato di oggi, il che permise un accumulo di ricchezza che non aveva precedenti storici. Il grano e l’orzo si conservano anche molto meglio del guanciale di mammuth.

3) Il surplus agricolo permise l’emergere di una società stratificata, con artigiani, intellettuali, burocrati. Erano tempi d’oro per gli architetti, che potevano sbizzarrirsi progettando opere pubbliche faraoniche.

4) Matematica. Non era così avanzata come si tende a pensare, ed era molto più pragmatica che teorica, ma le loro competenze geometriche erano sufficienti per costruire una piramide, o qualsiasi opera squadrata e con tanti spigoli. Era un mondo bellissimo, perché non esisteva ancora la trigonometria.

5) Operai qualificati. Le piramidi non furono costruite da schiavi, ma da lavoratori competenti sotto contratto [con molti più diritti dei contratti a progetto odierni]. Quella dei 100000 schiavi è una delle classiche Fake News di Erodoto, le stime odierne parlano di 10000 lavoratori salariati. Sappiamo di scioperi nell’antico Egitto per ritardi nella paga, effettuata in beni alimentari ed altri beni necessari come…

6) Creme solari. I raggi UV fanno male, e gli Egizi lo sapevano, ed avevano inventato unguenti protettivi.

7) Supporto di tutti gli strati della società. Le famiglie più ricche inviavano periodicamente animali da macello ai lavoratori, ricevendo in compenso sgravi fiscali.

Nonostante le numerose condizioni favorevoli, la costruzione di una piramide fu un’opera estremamente costosa, dalla durata di diversi decenni, che mise a dura prova risorse, forze e ingegno di migliaia di persone. Un’opera destinata a suscitare ammirazione nei millenni a seguire, ad immagine, nell’impermanenza, dell’eternità.

La gatta nera. Breve storia di un pregiudizio antico

“il gatto è l’animale preferito del diavolo e idolo di tutte le streghe” Papa Innocenzo VIII

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L’odio immotivato per i gatti è una caratteristica specifica del cristianesimo medievale. Questa è una generalizzazione grossolana, soggetta a numerose eccezioni, ma nessun’altra cultura ha posto in tale cattiva luce un animale che, in una società agricola, risultava molto utile contro molti dannosi parassiti.

Non solo gli egizi li veneravano, gli antichi romani li diffusero ovunque impiegandoli sulle navi per dare la caccia ai topi, lo stesso fecero i vichinghi. Puoi essere anche un brutale guerriero, un predone sanguinario temuto in tutto il mondo, ma tra un saccheggio e una battaglia ti fermerai comunque ad accarezzare un gatto.

Mentre l’islam considera il cane un animale impuro, abbiamo diverse storie sull’amore di Maometto per i gatti.

Un gatto lo salvò, mentre dormiva, da un serpente, e lui benedisse l’intera stirpe felina con nove vite ed un posto in paradiso. Quando poi Muezza, la sua gatta, gli si addormentò addosso, tagliò un pezzo del proprio vestito pur di non svegliarla.

Il luogo comune che vuole i gatti freddi ed egoisti è falso. Semplicemente, il non essere animali sociali pone un limite sia alla comunicazione sia all’addestramento. A differenza degli esseri umani e dei cani, non pensano in maniera gerarchica né in ottica di gruppo, e sono sprovvisti di una teoria della mente avanzata.

Perché tanto odio ingiustificato verso creature così adorabili? Perché erano visti come animali diabolici, ed associati alle streghe?

Per il semplice fatto che nei gatti è la femmina a prendere iniziativa sessuale. Se c’è una cosa che accomuna le religioni abramitiche, è l’unanime condanna dell’iniziativa sessuale femminile (il mito di Lilith è esemplare al riguardo).

Il loro legame con le streghe è invece connesso con la diffusione, in tutto l’impero romano, del culto della dea egiziana Iside. Nella fanatica lotta contro ogni credo pagano, il cristianesimo medioevale marchiò come streghe le sacerdotesse di un culto antichissimo e ormai morente, legato ai cicli lunari, alla femminilità e a riti di fertilità e resurrezione.

Non aiutò la loro reputazione agli occhi dei cristiani la natura esoterica dei loro riti, e il praticare antiche forme di magia. Erano spesso accompagnate dai gatti sacri, immagini della dea Bastet. Le celebrazioni delle fasi lunari vennero distorte nell’immagine del sabba, e i gatti sacri divennero un’ulteriore conferma della malignità delle presunte streghe. Furono perseguitate, e si perse quasi ogni traccia di loro.

Le persecuzioni medioevali di streghe, eretici e pagani non risparmiarono nemmeno i gatti.

Quando la peste nera invase l’Europa, portata da zecche che infestano i ratti, non c’erano più abbastanza felini per tenere sotto controllo la popolazione di roditori. Un terzo della popolazione europea morì. Molte morti si sarebbero evitate, ci fossero stati più gatti, e meno pregiudizi.

Il mito di Dioniso Zagreo

I riti misterici

La percezione comune della religione greca non va oltre lo stereotipo della religione olimpica e del suo pantheon. È un’immagine molto lontana dal vero. In parallelo alla religione ufficiale erano praticati una miriade di culti, spesso legati ad un luogo specifico, o a miti e credenze non sempre compatibili con essa, a volte importati da terre lontane, altre volte legati a tradizioni ancestrali. Ad essi, a differenza del rito ufficiale, poteva accedere tutta la popolazione, donne e schiavi compresi.

(Lawrence Alma-Tadema, A dedication to Bacchus)

Tali erano i culti misterici, in cui, dopo una lenta iniziazione, si era introdotti a un universo di miti e simboli radicalmente diverso, ma per noi stranamente familiare. In essi si rappresentavano (in una maniera molto “teatrale”) vicende di sofferenza, morte e resurrezione. Da tali riti e rappresentazioni sacre è nata la tragedia, e l’arte drammatica in generale*.

Se i miti di rinascita, spesso collegati a divinità agricole e al ripetersi delle stagioni, erano comuni a molte religioni antiche, la religione ufficiale greca non contemplava la resurrezione. L’Ade era un luogo di tenebra, popolato da ombre in preda ad amari ricordi e rimpianti.

Zagreus

Il mito di Zagreo è legato ai misteri dionisiaci dell’isola di Creta.
Zagreo, il cacciatore, è uno dei molti nomi di Dioniso. Figlio di Zeus, trasformatosi in serpente, e di Persefone, la regina degli inferi, aveva l’aspetto di un fanciullo, ed era destinato a regnare su tutto l’universo.

Forse istigati dalla gelosia di Era, forse desiderosi di un così grande potere, i giganti decisero di divorarlo. Erano creature primordiali, i figli della terra dalle numerose braccia e teste e gambe di animali, più antiche anche degli dei.

Gli tesero una trappola, attirandolo con dei doni (una trottola, un rombo, una palla, uno specchio ed un astragalo) per poi sbranarlo. Si salvò solo il cuore, ancora sgorgante sangue dal colore cupo del vino. Zeus, accortosi dell’accaduto, fece risorgere Zagreo dal suo cuore pulsante, e fulminò i giganti. Dalle loro ceneri nacque la stirpe umana, partecipe sia degli aspetti più brutali della natura, che dell’immortale essenza di Dioniso Zagreo.

I riti orgiastici dionisiaci erano la rappresentazione dell’accaduto mitico. In essi, una vittima sacrificale, spesso un agnello, veniva sbranata e la sua carne sanguinante divorata dai partecipanti, in preda all’ebbrezza, al furore e alla lascivia. Venivano così celebrati sia gli aspetti più cruenti e terreni della natura umana, sia l’unica, immortale e divina essenza di cui siamo tutti partecipi.

*Per i più pedanti, pronti a contestare tale affermazione, rimando allo Zagreus di Macchioro