Cesare, una thug life: in the ghetto. Dandismo e tracotanza

“Quando vedo i suoi capelli così accuratamente pettinati, o lo colgo nell’atto di grattarsi la testa con un dito, non mi pare possibile che quest’uomo abbia concepito un progetto così malvagio, quello, cioè, di rovesciare la costituzione romana” Cicerone

L’Urbe

Erano tempi oscuri per la Repubblica. Se ormai si era affermato il predominio incontrastato di Roma nel Mediterraneo, l’Urbe rimaneva in subbuglio. Alle immense fortune delle classi superiori faceva da contrasto la miseria del proletariato. Mezzo milione di bocche affamate, spesso ammassate in enormi condomini fatiscenti, erano pronte alla ribellione, sobillate da demagoghi che, vuoi per simpatia vuoi per tornaconto personale, ne rappresentavano la voce fino al Senato, il centro del potere.

Le riforme dei Gracchi erano finite in un bagno di sangue, così come quelle di Mario. Silla, da dittatore, aveva imposto un cruento ritorno all’ordine, eliminando senza remore ogni opposizione.

Uccidere un adolescente appena affacciatosi alla politica, tuttavia, sembrava crudele anche per i suoi standard. Eppure, lo voleva morto.

In questo ragazzino, Gaio Giulio Cesare, Silla vedeva l’immagine di Mario centuplicata.

Il divo Giulio

Cesare nacque nel quartiere popolare e malfamato della Suburra nel 101 a.c. da una famiglia aristocratica, ma ormai impoverita e caduta in disgrazia.

Da giovane era alto, pallido, gracile ma di bella presenza, sempre molto curato ed elegantissimo. In seguito, non accettò mai la sua calvizie, e faceva di tutto per nasconderla. Proprio per questo adorava le corone di alloro. Soffriva del morbo sacro, che noi profani chiamiamo epilessia.

Mostrò fin da subito grandi capacità oratorie ed un carisma inferiore solo al suo spropositato amore di sé. Sapeva sedurre, affabulare, conquistare cuori e menti sia con parole che con azioni.

Il suo appetito sessuale era proverbiale, ed onnivoro. Aveva fama di essere “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti”. Nonostante i vari scandali non dava peso né alle voci sul suo conto né alle varie allusioni dei suoi avversari.

A diciotto anni fuggì Roma per sottrarsi alle ire di Silla. Legami di parentela con Mario e l’appartenenza ai populares erano già costati la vita a due suoi zii. Riuscì a salvarsi, forse per l’intercessione della stessa figlia di Silla o delle vestali, e perché corruppe i sicari venuti a cercarlo. Andò in Asia, dove prestò servizio militare, in cui si distinse per valore.

Morto Silla, poté darsi alla politica senza più timori. Il popolo lo amava. Persino ai suoi nemici riusciva difficile odiarlo.

Spesso imbandiva feste e banchetti pubblici ed elargiva favori al popolo, e ancor prima di aver ricevuto cariche, aveva già speso una fortuna che non aveva. Aveva tuttavia l’amicizia di Crasso, l’uomo più ricco di Roma. Come vuole il detto, chi trova un amico trova un tesoro.

Molti lo consideravano stupido e uno scialacquatore. Spendeva cifre folli, apparentemente senza secondi fini. Pochi intuivano quanto questi fini fossero alti. Pochissimi sapevano dei suoi enormi debiti. Il denaro sembrava essergli indifferente. Cosa cercava, il potere, o qualcos’altro?

Al funerale di sua zia Giulia, moglie di Mario, Cesare, ormai trentenne e questore della Repubblica, mostrò il suo vero volto.

Fece portare le effigi di Mario in processione, tra la gioia del popolo, sfidando la legge ed il senato. Questo era ai tempi un grave crimine, ma un crimine che non sarebbe stato punito.

Ma qualcos’altro fece rabbrividire i senatori lì presenti: nell’ orazione funebre raccontò delle origini di sua zia defunta e della sua famiglia, la gens Iulia. Era un modo elegante per parlare di sé.

La gens Iulia, proclamò, era una famiglia di antica ed illustre nobiltà. Tracciava la sua origine da Iulo, o Ascanio, figlio di Enea. Tramite l’eroe troiano erano quindi discendenti della dea Venere.

Cesare aveva proclamato la sua origine divina.

Più che il potere, cercava, come un eroe antico, la gloria imperitura.

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