Cesare, una thug life: il dado

Il passaggio del Rubicone e la celebre, solenne frase “il dado è tratto”, attribuita a Cesare a fatto compiuto, è un episodio che, nella cultura popolare, è fortemente misinterpretato.

La figura di Cesare nella nostra memoria collettiva si staglia e svetta algida e statuaria, con un fare arcigno e sprezzante.

L’uomo era più complesso, e sottoposto a passioni molto più umane.

Cominciamo dal contesto.

Cesare, dopo la conquista delle Gallie, svoltasi di sua privata iniziativa, è diventato ormai estremamente ricco e potente, e le sue vittorie hanno adombrato le passate glorie dell’uomo più potente di Roma, Pompeo, allora noto come Pompeo Magno, il conquistatore della Siria e dell’Asia.

Cesare, nei commentari, dà ogni colpa a Pompeo, è lui ad avere iniziato le ostilità, con manovre politiche, togliendo sistematicamente di mezzo i sostenitori del rivale.

A sua volta Pompeo, a Roma, descriveva Cesare come un pericolo pubblico. Era chiaro che mirasse al potere assoluto, tutti sapevano delle sue ambizioni sconfinate.

In realtà entrambi, anche se a lungo e per comodità alleati politici, sapevano che, dopo la morte del ricchissimo Crasso, c’era spazio solo per una persona al vertice dell’Urbe.

La guerra era inevitabile.

Il territorio della città di Roma era sacro e inviolabile. Le truppe non potevano varcarne i confini, gli eserciti andavano sciolti.

Questi confini sacri si erano sempre più ingranditi, e dalla singola città di Roma si erano estesi fino a comprendere tutta la provincia d’Italia, che finiva proprio sul Rubicone, a nord di Arminium (Rimini).

Più a nord cominciavano le Gallie. E le Gallie erano di Cesare.

Quindi, varcare il Rubicone era considerato non solo sovversione dell’ordine pubblico, ma sacrilegio.

Cesare lo sapeva bene, dopo tutto era il Pontefice Massimo, una somma autorità religiosa.

Attaccare, varcare il Rubicone e avere tutta Roma contro, diventare il nemico pubblico, avendo a disposizione solo una legione (la decima, i più fedeli, i più coraggiosi tra i soldati di Cesare) contro tutte quelle di Pompeo e di Roma, confidando nelle amicizie, nella sua fama, nei sui sostenitori, o in un passo falso del nemico?

Oppure aspettare ancora, le legioni delle Gallie erano già in marcia, ma in quel caso Pompeo avrebbe avuto tutto il tempo per prepararsi…

Nel dubbio, decise di attaccare. Come sempre. Dopo tutto, gli era andata quasi sempre bene… Fino ad ora.

La decima legione era acquartierata sul confine.

Cesare è a Ravenna, poco lontano.

La sera va a teatro, per non destare sospetti.

Decide di muoversi col buio.

Doveva raggiungere le sue truppe, di nascosto, nei loro accampamenti, di notte e travestito da carrettiere, su di un carro trainato da muli.

Erano pochi chilometri da percorrere, eppure passavano le ore, già albeggiava, ma nel campo non vi era nessuna traccia di Cesare.

Si era perso tra i boschi e le paludi della zona. Non riusciva più a trovare la via per giungere alle sue truppe.

Come è distante l’immagine di Cesare disorientato, confuso, consapevole del rischio estremo a cui andava ad esporsi, e probabilmente spaventato, da quella distaccata, solenne che esclama, sprezzante del pericolo, il dado è tratto, “alea iacta est”!

Sono parole che Cesare non ha mai pronunciato.

Da buon aristocratico romano, usava il greco nelle occasioni solenni. E in greco, attraversando il Rubicone, esclamò delle parole, tradotte da Plutarco con alea iacta esto, “si lanci il dado!”.

Era la formula di rito del giocatore di azzardo, nella bisca, subito dopo aver lanciato una scommessa.

Cesare, una thug life: pirati BTFO

Era solo un ragazzo ma già Silla lo voleva morto. Cesare fuggì da Roma, cambiando casa ogni notte e di giorno viaggiando. Si stava dirigendo verso Rodi quando, al largo dell’isola di Farmacussa, nel mare Egeo, fu catturato dai pirati.

Erano pirati della Cilicia, famigerati per la loro ferocia e crudeltà. Sapendo di aver catturato un nobile romano, fissarono un riscatto di 20 talenti. Questa era una cifra considerevole, che poteva bastare ad una persona normale per un’intera vita negli agi, o a Cesare per una settimana di favori, eventi pubblici e spese sconsiderate. Al sentire la cifra, rise. Lui valeva di più, molto di più!

Almeno 50 talenti.

I pirati furono felici di accontentarlo. Furono anche sorpresi del carattere del ragazzo, che non sembrava affatto spaventato, anzi, beveva, rideva e scherzava con loro, come fossero amici di lunga data. Era davvero simpatico!

Da ubriaco ripeteva spesso, ridendo, che li avrebbe impiccati tutti, ma si sa come sono i ragazzi… Scherzano, fanno la voce grossa, fanno gli sbruffoni.

Era un po’ meno simpatico quando li sgridava perché schiamazzavano la notte, invece di farlo dormire.

Per ingannare il tempo scriveva discorsi e poesie che poi leggeva loro. Se poi non gli piacevano li insultava, chiamandoli barbari ed ignoranti.

Più o meno è andata così

Ricevuto il riscatto, lo rilasciarono. Cesare allora si diresse verso il porto più vicino, e subito fece armare una nave per dare la caccia ai pirati. Li beccò nel solito posto, che non avevano ancora lasciato. Quindi li portò prigionieri nella vicina provincia romana, assieme al loro ricco bottino. Consegna il bottino al governatore, in cambio lui avrebbe chiuso un occhio sulla sorte dei pirati. Li fa prelevare dalle carceri, prima che fossero sottoposti a un processo, e li fa impiccare davanti ai suoi occhi.

Cesare era un uomo di parola.

Cesare, una thug life: in the ghetto. Dandismo e tracotanza

“Quando vedo i suoi capelli così accuratamente pettinati, o lo colgo nell’atto di grattarsi la testa con un dito, non mi pare possibile che quest’uomo abbia concepito un progetto così malvagio, quello, cioè, di rovesciare la costituzione romana” Cicerone

L’Urbe

Erano tempi oscuri per la Repubblica. Se ormai si era affermato il predominio incontrastato di Roma nel Mediterraneo, l’Urbe rimaneva in subbuglio. Alle immense fortune delle classi superiori faceva da contrasto la miseria del proletariato. Mezzo milione di bocche affamate, spesso ammassate in enormi condomini fatiscenti, erano pronte alla ribellione, sobillate da demagoghi che, vuoi per simpatia vuoi per tornaconto personale, ne rappresentavano la voce fino al Senato, il centro del potere.

Le riforme dei Gracchi erano finite in un bagno di sangue, così come quelle di Mario. Silla, da dittatore, aveva imposto un cruento ritorno all’ordine, eliminando senza remore ogni opposizione.

Uccidere un adolescente appena affacciatosi alla politica, tuttavia, sembrava crudele anche per i suoi standard. Eppure, lo voleva morto.

In questo ragazzino, Gaio Giulio Cesare, Silla vedeva l’immagine di Mario centuplicata.

Il divo Giulio

Cesare nacque nel quartiere popolare e malfamato della Suburra nel 101 a.c. da una famiglia aristocratica, ma ormai impoverita e caduta in disgrazia.

Da giovane era alto, pallido, gracile ma di bella presenza, sempre molto curato ed elegantissimo. In seguito, non accettò mai la sua calvizie, e faceva di tutto per nasconderla. Proprio per questo adorava le corone di alloro. Soffriva del morbo sacro, che noi profani chiamiamo epilessia.

Mostrò fin da subito grandi capacità oratorie ed un carisma inferiore solo al suo spropositato amore di sé. Sapeva sedurre, affabulare, conquistare cuori e menti sia con parole che con azioni.

Il suo appetito sessuale era proverbiale, ed onnivoro. Aveva fama di essere “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti”. Nonostante i vari scandali non dava peso né alle voci sul suo conto né alle varie allusioni dei suoi avversari.

A diciotto anni fuggì Roma per sottrarsi alle ire di Silla. Legami di parentela con Mario e l’appartenenza ai populares erano già costati la vita a due suoi zii. Riuscì a salvarsi, forse per l’intercessione della stessa figlia di Silla o delle vestali, e perché corruppe i sicari venuti a cercarlo. Andò in Asia, dove prestò servizio militare, in cui si distinse per valore.

Morto Silla, poté darsi alla politica senza più timori. Il popolo lo amava. Persino ai suoi nemici riusciva difficile odiarlo.

Spesso imbandiva feste e banchetti pubblici ed elargiva favori al popolo, e ancor prima di aver ricevuto cariche, aveva già speso una fortuna che non aveva. Aveva tuttavia l’amicizia di Crasso, l’uomo più ricco di Roma. Come vuole il detto, chi trova un amico trova un tesoro.

Molti lo consideravano stupido e uno scialacquatore. Spendeva cifre folli, apparentemente senza secondi fini. Pochi intuivano quanto questi fini fossero alti. Pochissimi sapevano dei suoi enormi debiti. Il denaro sembrava essergli indifferente. Cosa cercava, il potere, o qualcos’altro?

Al funerale di sua zia Giulia, moglie di Mario, Cesare, ormai trentenne e questore della Repubblica, mostrò il suo vero volto.

Fece portare le effigi di Mario in processione, tra la gioia del popolo, sfidando la legge ed il senato. Questo era ai tempi un grave crimine, ma un crimine che non sarebbe stato punito.

Ma qualcos’altro fece rabbrividire i senatori lì presenti: nell’ orazione funebre raccontò delle origini di sua zia defunta e della sua famiglia, la gens Iulia. Era un modo elegante per parlare di sé.

La gens Iulia, proclamò, era una famiglia di antica ed illustre nobiltà. Tracciava la sua origine da Iulo, o Ascanio, figlio di Enea. Tramite l’eroe troiano erano quindi discendenti della dea Venere.

Cesare aveva proclamato la sua origine divina.

Più che il potere, cercava, come un eroe antico, la gloria imperitura.

Cesare, una thug life: una lettera sospetta

Comincia qui una breve serie dedicata a Cesare.

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Non tratterò delle sue celebri imprese, per quello ci sono i libri di storia, ma del personaggio, degno della leggenda: il più scaltro dei politici, il più audace dei generali, il più megalomane degli uomini, partito dal nulla ma capace di cavarsela in ogni situazione e trionfare nonostante le avversità, senza mai perdere il suo swag. Insomma, non aveva scelto la thug life, era la thug life ad aver scelto Cesare.

Plutarco nella vita di Bruto narra un episodio di gossip che fa molta luce sul suo personaggio.

L’unica cosa storicamente accurata in questa immagine è il motto di Cesare, Nobiscum Venus (Venere è con noi). Pare infatti fosse sua lontana parente

In seguito alla congiura di Catilina, Catone (che sarà fiero avversario di Cesare fino alla morte) si scontrò al senato con Cesare, esponente di spicco del partito dei populares e da tempo sospetto di essere un sovversivo. Il primo chiedeva l’esecuzione immediata di ogni congiurato che non era riuscito a fuggire, il secondo chiedeva un giusto processo, come si conveniva a dei senatori, e una pena meno severa.

In un’epoca segnata da congiure, assassini, proscrizioni e processi sommari, si stava esponendo ad un grosso rischio invocando clemenza. Era dalla parte di Catilina, o del senato? Come era possibile che non sapesse nulla della congiura, nata in seno al suo stesso partito? Questa era un’accusa di tradimento, punibile con la morte, e non del tutto ingiustificata.

All’improvviso entra un messo e consegna una lettera a Cesare, che provvede a leggerla con calma e con molto interesse, ignorando i presenti. Ecco che Catone, infuriato, lo accusa di ricevere lettere dai congiurati, perdipiù sotto gli occhi di tutto il senato! Gli intima di fargli leggere la missiva. All’inizio restio, Cesare cede alle accuse e gli consegna la lettera, avvertendolo: “il suo contenuto non ti piacerà”.

Non era Catilina.

Era una lettera lasciva di Servilia, amante di Cesare, moglie di un illustre senatore lì presente, e sorella di Catone, che glie la rilancia disgustato, urlandogli “tieni, ubriacone!”.

Quest’accusa sembra francamente ingiustificata.

Cesare sarà stato pure un megalomane, scialacquatore, erotomane, ambiguo, demagogo, tiranno, narcisista, manipolatore, sobillatore, partecipe alla congiura di Catilina, ma di certo non era un ubriacone.

Quanto a Servilia, che amò fin dalla più tenera età, e poi ancora per lungo tempo (nonostante fossero entrambi sposati), fu la madre di Bruto.